Emergenza educativa

Al Presidente
Del Consiglio Comunale di Fano

Molti fatti, che si stanno presentando anche nella nostra città , fanno emergere in maniera sempre più evidente, la necessità di attivarsi per una ampio articolato “progetto educativo”. Se una società perde la capacità di generare alla vita sociale le nuove generazioni questa società muore. La crescita umana e sociale dei giovani, deve essere l’interesse prevalente della realtà sociale ed amministrativa di un territorio.
E’ ovvio che tale percorso passa in prima istanza attraverso la famiglia, ma poi la scuola, le associazioni le parrocchie cioè tutte quelle “agenzie” che interagiscono, volontariamente o meno, con il mondo giovanile favoriscono ( ma possono anche ostacolare) questo processo.
Anche nella nostra città si sono avuti sentori di questa “emergenza educativa”. Fenomeni di violenza di giovani adolescenti della nostra città ci hanno come svegliato.
Bene Comune ritiene che l’Ente Locale, oltre ad attivare tutti i servizi e gli strumenti per la sicurezza dei cittadini, sia anche responsabile dell’azione di promozione e sviluppo di iniziative atte a favorire nel proprio territorio, il coordinamento di tutte le agenzie educative presenti.
Considerata la complessità e la multifattorialità dei problemi, che questi non riguardano specificamente il settore sociale ed educativo, ma che, anzi, coinvolgono tutta l’attività amministrativa, (sport, cultura, giovani, lavoro ed attività produttive, Urbanistica ecc…) il sottoscritto chiede che possa essere svolto un consiglio monografico sull’emergenza educativa che favorisca la stesura di un documento di indirizzo sul “futuro delle politiche dei giovani ed adolescenti della nostra città

Consigliere Comunale di Bene Comune
Carlo De Marchi

1 comment to Emergenza educativa

  • RAVE PARTY: NESSUNA USCITA DI EMERGENZA

    Nuovamente, nei salotti buoni, ritorneranno i soliti volti noti a dannarsi l’anima per tentare di dare una spiegazione plausibile, una causa decodificabile, una possibilità ben articolata per rendere meno ardua la sentenza, la quale non limita alla corresponsabilità di ognuno il peso di questa assenza, ma allarga a ciascuno la colpa, infatti ognuno e ciascuno siamo troppo presi a farci le scarpe con le promesse svuotate di ogni contenuto, siamo bravi a invocare sicurezze, ma persistiamo a non voler vedere a un palmo dal nostro naso.
    Musica a palla e movimenti ossessivi, avanti senza fretta, tanto il tempo non esiste più, è lì bloccato, violentato dal futuro negato, nell’ultimo agguato che reclama il dazio più alto da pagare.
    Un’altra ragazza è caduta a piombo, con le unghie colorate e le vesti intatte, distesa a terra, senza riuscire a trovare un’ansa dove ritemprarsi, dove rifugiarsi, dove ritrovare finalmente un senso.
    Gli adulti nel frattempo fanno finta di non vedere gli altri, quelli con gli occhi spiritati dai capitomboli volanti, che comprano il biglietto per la prima fila e per la roba da calare giù. Stanno a parlare di droghe, di alcol, di disagio, di giovani tramortiti dalla anormalità fatta banalità, senza accorgersi delle ultime volontà di una società malata, sbilanciata per vincere a tutti i costi, perdendo i pezzi migliori.
    Rave party e l’attesa racchiusa in un bicchiere, l’ultimo, quello della staffa, calato giù con la roba, così scompare l’urto del fastidio che verrà, senza fare rumore riempirà di attenzione ognuno, in una ossessione illusoriamente liberatoria, che condurrà al prossimo sacrificio.
    Un’altra ragazza è morta, titoloni sui giornali e trasmissioni ad alto registro, per sottolineare il pericolo dei rischi estremi, la ferocia del suono che disinibisce, delle sostanze che inventano corsie preferenziali prive di uscite di emergenza.
    C’è urgenza di andare alle statistiche che dilaniano le certezze, per non accettare questa partitura scritta sulla pelle dei più giovani, c’è altro da indagare, per arginare quella voglia di scomparire, intesa all’inizio come una semplice boutade, ma a giorni alterni eletta a mito che non viene meno.
    La strada da percorrere insieme sta nel mezzo di quel rave party, nel centro di quello spiazzo, dove la storia ci racconta un desiderio di vivere e gioire che non c’è più, di emozioni sparate addosso ai sentimenti, di un senso ripiegato su se stesso, così accartocciato da falsarne l’importanza.
    Occorre smetterla con le politiche da neofiti d’accatto, serve raccontarci la nostra storia personale, che a volte non è bella, anzi è una gran brutta storia, ma proprio per questo potrebbe indurci a non guardare più il cielo e pensare che il “destino è cieco e non lo sa “.
    Perché siamo noi i protagonisti dei nostri domani, delle nostre speranze di incontrare qualcuno che parla alle stelle di quel cielo, e quelle stelle portano il nostro nome.

    IL BRANCO DEGLI SCARACCHI

    La tortura nei riguardi di chicchessia è una ignominia, messa in atto dal branco verso un giovanissimo è qualcosa di ancora più indicibile.
    La violenza è compagna di viaggio di molta parte di umanità, in questo caso c’è il gesto di crudeltà fine a se stesso, la ricerca di prevaricazione, il dominio sull’altro, poco importa se ottenuto arrecando dolore al più debole, fragile, indifeso.
    Il branco usa tecniche ben collaudate, la bugia, l’inganno, il tradimento, esprime una caratura professionale consona alla sua età, per soggiogare, mettere sotto, rendere schiavizzata del proprio potere la vittima designata.
    La baby gang lega un ragazzino a un albero, lo colpisce, gli urina addosso, tra scaracchi e risate sguaiate, poi è gia ora di ritornare a casa, ognuno con il proprio balzello ben calato nelle tasche vuote, e ciascuno conoscerà altre ferite, mentre il dolore del ricordo scaverà nelle carni un solco indelebile.
    Di fronte a questi fatti si fa sfoggio di sociologie e pedagogie di intrattenimento: genitori che non sanno più essere educatori, una società che spinge al divertimento e allo sballo infrasettimanale.
    Il branco sopravvive a se stesso, costantemente disconnesso dalla quotidianità, dove esistono ancora le regole, quelle che occorre conoscere per poterle rispettare, quell’area libera da sottomissioni precostituite, dove esistono le persone avvero autorevoli, che qualche volta è possibile incocciare, attraverso la fortuità di un incontro, che però obbliga a dedicare tempo e volontà a relazionarsi nella pratica della discussione e dell’ascolto, con quanti ogni giorno rimangono contusi alle arcate sopraciliari, degli altri acciaccati nell’anima.
    Violenza e paura di non essere nessuno, paura di non riuscire a essere quel che si vorrebbe, violenza e paura di non essere degni del gruppo, approvati e accettati, protetti da una omertà che consolida la sua egemonia attraverso l’ottenimento di sensazioni forti, immediate, di quelle che “sconvolgono”, ma non affaticano né impegnano più del necessario.
    Persino nella infamia di questo gesto, di questa violenza imitata e imitante, di questo atteggiamento mentale terroristico, erede dei bullismi di ieri, c’è inquietante la rivolta sotterranea, la voglia di annichilirsi, di affrancarsi dalla contaminazione di ogni eventuale “fuori quota”, fautori di una normalità insopportabile, dove c’è il rischio di incappare in quell’intelligenza e sensibilità, che non permette ad alcun adolescente, né ad alcun adulto, di disconoscere il valore della dignità umana.
    Branco, baby gang, teppisti e bulli, molte le declinazioni, poche le giustificazioni travestite da attenuanti , è violenza che scardina la libertà di crescere insieme, che nega il diritto di essere conformi nel rispetto dell’altro, che disperde il dovere di resistere fino in fondo, per essere degni di vivere con lo sguardo in alto, con il domani ben cucito sulla pelle.

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