Il Disagio della città che cambia

Per iniziare a costruire il futuro della nostra città occorre chiamare ad un attenta riflessione rappresentanti delle istituzioni locali, del terzo settore, delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali.
Fano e tutto il suo interland è una città che invecchia il tasso di invecchiamento è molto più accentuato che nel resto d’Italia , dove i nuclei unipersonali sono al 40%, dove gli immigrati supportano il calo della popolazione autoctona e le mancate nascite di bambini italiani sono compensate dai minori immigrati stranieri che in alcune scuole raggiungono anche il 10% degli iscritti. Un futuro di una città complessa, non riconducibile a schematiche semplificazioni. L’area geografica dei Comuni limitrofi a Fano (Mondolfo-Marotta, San Costanzo, Cartoceto-Lucrezia, Saltara-Calcinelli) sommate a Fano sommano circa 90.000 abitanti. Tutti questi Comuni hanno avuto in meno di 10 anni un trend d’incremento di popolazione che ha fatto “cambiare” il tessuto sociale radicalmente.
La convivenza è infatti una pianta delicata, la sua qualità dipende spesso da equilibri precari, fatti di economie, di scelte urbanistiche, di politiche sociali e sanitarie, di condizionamenti esterni, di sicurezza urbana che incidono spesso nell’immaginario collettivo dei cittadini.
L’obiettivo evidente non è quello di convincere che costruendo reti e relazioni si mettono in pratica quelle strategie atte a creare un processo di inclusione sociale di questa grande parte di popolazione immigrata, ma quello di confondere, di alimentare paura negli strati più fragile e più esposti. La questione su cui tutti concordano è che la crescita economica dei nostri territori non sarebbe possibile senza il contributo dell’immigrazione. Basta guardare a quanto avviene nei due settori più dinamici della nostra economia, la cantieristica navale e l’edilizia. Sono pochi i Fanesi che accetterebbero di svolgere mansioni operaie che invece gli immigrati sia extracomunitari che provenienti dalle città del nostro mezzogiorno accettano volentieri.
Mentre i nostri giovani rimangano a carico della loro famiglia con lavori precari per anni e quando studiano e si specializzano, magari anche all’estero, fanno fatica a trovare il lavoro nella nostra regione e vanno a infoltire l’immigrazione intellettuale verso le aree metropolitane del nord d’Italia o nei paesi del nord d’Europa.
Ma non si possono volere gli immigrati per farli lavorare nelle nostre fabbriche e nei nostri cantieri poi pretendere di non farsi carico delle loro “problematicità”: l’alloggio, l’educazione dei loro figli (la criticità di centinaia di ragazzi nell’extrascuola causata dalla mancanza di una rete famigliare di sostegno), la salute ecc. E’ qui che il sistema di Welfare che non può più essere riparativo-assistenziale deve essere posizionato come asse portante dello sviluppo economico del territorio. Come sostiene ormai da anni il Prof. Stefano Zamagni emerito docente dell’Università Alma-mater di Bologna, il Welfare è lo strumento con cui si costruisce su un territorio quelle condizioni che danno all’impresa le condizioni per competere sul mercato della globalizzazione. Il nuovo modello da seguire per coniugare le esigenze di crescita economica con quelle di tutela della qualità dell’ambiente e della riduzione delle disuguaglianze sociali è quindi l’obiettivo su cui far convergere in un’ottica di responsabilità sociale tutti gli attori del territorio sia del profit che del non- profit.
I criteri esclusivamente economici di valutazione dello sviluppo non sempre costruiscono un indicatore esauriente della corretta direzione di sviluppo di un territorio e delle forme che esso dovrebbe assumere.
Sono quindi sempre più evidenti i segnali di aspirazione a un modello che abbia come obiettivo la “qualità della vita”, quindi il benessere e il welfare nell’accezione più ampia del termine.
Le relazioni umane devono essere poste tra gli indicatori e non solo il reddito per far favorire le condizioni di uno sviluppo per la crescita di una città non disgregata. Quei beni relazionali (come la famiglia, la vita associativa, la comunità locale) che hanno rappresentato il modello marchigiano di sviluppo. Una società povera di relazioni oltre ad essere una società dove si vive peggio e anche paradossalmente una società meno produttiva perché la disgregazione del tessuto sociale finisce per agire come un boomerang sulla capacità di sviluppo economico e sulla stessa produttività e capacità di investire nel capitale umano.
E per questo che il nostro obiettivo deve essere un nuovo welfare che punti sulle politiche per la tutela della famiglia e di tutti gli altri beni relazionali e non monetari come la sicurezza, l’istruzione, la sanità, l’ambiente questi ultimi rappresentano infatti un formidabile supporto allo sviluppo economico.
L’inclusione sociale, la partecipazione, la creatività , la formazione del capitale umano, la fiducia nelle relazioni contano più che l’aumento del capitale economico di un territorio.
Come sono cambiate le reti delle relazioni nei nostri Comuni con l’arrivo degli immigrati?
Come stiamo governando questi delicati meccanismi di inclusione e integrazione sia da parte delle Istituzioni, sia da parte della società civile? Il rischio è che ci si chiuda in un isolamento che ha l’effetto di produrre solo maggiore domanda di sicurezza.
Le organizzazioni sociali diffuse, radicate nel territorio come rispondono a questo cambiamento?
Serve quindi una seria volontà di capire le dinamiche in corso per presentare un progetto complessivo alla città, accompagnata da proposte operative e concrete interconnesse in un principio di responsabilità condivise tra pubblico e privato per risvegliare la voglia di costruire un pezzo di futuro prossimo dove la partecipazione alla vita della comunità porti, con l’integrazione di nuovi cittadini anche al rafforzamento di quei valori ampiamente condivisi nella nostra cultura marchigiana quali il lavoro, l’accoglienza, la produttività ma anche la solidarietà su cui si fondava il nostro sistema di benessere.


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